MASSONERIA ANTEDILUVIANA: UN DILEMMA
Dalla Ship Tavern di Bishopgate (Londra) alle Antiquities… di G. Oliver (1840)
Per quanto fantasiosa (e A. G. Mackey, nel XXIII° cap. della sua History of Freemasonry, la dismette come lore massonico), la ierostoria tracciata dal rev. Oliver ha alcuni pregi assoluti: 1) reintegra Noach nell’ancestry della Libera Muratoria, rettificando o colmando una situazione singolare: l’assenza del primo uomo chiamato giusto e per questo passato coi suoi attraverso una “morte” rigeneratrice (come il Maestro Hiram), araldo, per il Talmud, di un culto universale fondato su dovere e diritto; 2) celebra il lignaggio di Seth a scapito di quello cainita, che pure nella Bibbia è accreditato di abilità costruttive (v. sopra): occorre deprecare lo spirito cainita che si è insinuato nella Libera Muratoria anche in tempi recenti, ogniqualvolta si è cercato di farla deviare dalla sue essenza spirituale per renderla “operativa” in senso gretto.
Antediluviani o Noachidi?
A questo punto ci si pone la domanda: quale dei due aggettivi, antediluviano o noachide, meglio si attaglia al lignaggio massonico al quale ci riferiamo? E, condizione preliminare perché la domanda sia sensata e la questione sostanziale più che nominale: esiste una differenza effettiva tra le due definizioni?
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I MAGI, GESU’ E LA RELIGIONE NOACHIDE
Il racconto evangelico ci parla di tre saggi d’Oriente – magoi li chiama Matteo 2:1, ossia sacerdoti della religione mazdea, o zoroastriana – che guidati da una Stella giunsero al luogo della Natività resero omaggio a Gesù con oro, incenso e mirra (Mt.2:11). I motivi per cui il Vangelo ci dice questo sono stati interpretati in vari modi. La nascente chiesa cristiana mirava a un’ espansione oltre i confini del contesto ebraico, e ad Antiochia, ove la lezione di Matteo avrebbe preso corpo, esisteva una fiorente comunità zoroastriana; l’inserimento della leggenda dei Magi nel tessuto evangelico avrebbe così avuto il senso di una dimostrazione dell’universalità di Gesù, segnatamente della sua messianicità: i discepoli di Zarathushtra attendevano – e ancora attendono – il Saoshyant (soccorritore, salvatore) e Gesù, secondo i suoi seguaci, rappresentava l’adempimento di quella speranza, come di quella degli Ebrei che invocavano il mashi’ach (il discorso sul “Dio sconosciuto” tenuto da Paolo nell’Areopago ateniese, in At.16, avrebbe avuto funzione analoga rispetto alla religione greca). Non dimentichiamo, inoltre, che i primi detentori del Vangelo di Luca furono Marcione e i suoi discepoli, in una ecclesia che certo prefigurava più il dualismo dottrinale e la sobrietà rituale dei Catari del medioevo che non le idee e le procedure del Cattolicesimo.
Ma a questa lettura, che si basa sullo zelo proselitistico dei primi cristiani, se ne affianca una ben diversa, quella secondo cui Gesù sarebbe stato “agente”, in Israele, di una fede derivante dall’insegnamento del profeta Zarathushtra. Forse esseno (e la comunità di Qumran, nella Regola di guerra marcava in senso dualistico l’idea biblica della realtà di una ribellione antidivina nel cosmo), Gesù parla dell'”avversario”, l’usurpatore che regna con le sue “legioni” sul mondo, in maniera e con frequenza ignote all’Antico Testamento; la storia dell’Ebraismo ha preso atto di influssi iranici nell’Ebraismo post-esilico, e non è un caso che in Isaia l’imperatore Kurush (Ciro) venga messianizzato, in quanto liberatore di Israele che così può ricorstruire il tempio a Gerusalemme.
Le due interpretazioni sono, in una certa misura, compossibili, se si situa l’opera di Gesù, per così dire, in un punto di intersezione ideale tra Persia e Israele. E l’importanza di quella intersezione è attestata dalla persistenza di una traditio del genere nei secoli successivi alla stesura dei Vangeli canonici. Il settimo cap. del Vangelo arabo-siriaco dell’Infanzia, riprendendo l’episodio della visita dei Magi, afferma aver essa avuto luogo “come aveva predetto Zarathushtra”, mentre l’undicesimo cap. del Vangelo armeno dell’Infanzia lo riconduce a un misterioso scritto che, dopo l’uccisione di Abele da parte di Caino, Dio avrebbe dato ad Adamo, insieme alla consolazione del secondo figlio Seth. Costui avrebbe ricevuto dal padre quel testo (contentente “una promessa… in favore dei figli degli uomini”) poi trasmesso alla sua discendenza, fino a Noach, da questi a Shem, e attraverso il lignaggio di questi, fino ad Abramo. Il capostipite di Israele lo avrebbe affidato a Melkitsedech, il re-sacerdote di Salem (la proto-Gerusalemme), che lo avrebbe trasmesso al suo lignaggio, fino a che, ai tempi di Ciro, il documento sarebbe entrato in possesso dei Persiani (pare sottintesa, qui, l’idea di un premio per la magnanimità dell’achemenide verso il popolo d’Israele). Dunque, in questo apocrifo si pone una genealogia spirituale che collega l’Iran mazdeo non solo a Israele, ma addirittura al ministero spirituale di Adamo, l’uomo-archetipo.
Ma qui vogliamo collocarci in una prospezione (o in una retrospezione) ulteriore rispetto sia all’una che dall’altra quelle fino ad ora esaminate, ipotizzando che sia ragionevole identificare nella cifra noachide il collante tra i Magi e Gesù. E non sulla pase del passaggio attraverso Noach di una promessa messianica, come ci dice il Vangelo armeno (il quale pure, come quello di Matteo, potrebbe aver inteso utilizzare una ierostoria di quel tipo per predicare più agevolmente il Cristo agli Armeni, che erano di religione zoroastriana), bensì attraverso l’idea della giustizia, tzedakah. Infatti, dopo i Profeti (Isaia 45:8: “Stillate, cieli, dall’alto, e le nubi facciano piovere la giustizia“, Michea 6:5: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia“) è Gesù che in Israele pone al centro della religione la suprema forma della morale: “Cercate prima il regno e la giustizia di Dio…” (Mt. 7:33).
Sì, il rav di Nazareth, secondo la tradizione massonica noachide, si colloca nel lignaggio degli ‘ishim tzaddikim, gli uomini giusti e come tali dehni di partecipare dell’essenza divina: una testimonianza di notevole suggestione la troviamo nel rituale del primo dei tre gradi del Rito Swedenborghiano, dove esplicitamente si interpreta l’omaggio dei Magi a Gesù come atto di culto noachide (dunque non idolatrico, ma simbolico):
“Questa antica religione (…) e la sua natura simbolica, sono visibili negli atti dei Saggi d’Oriente che resero omaggio al Cristo nella Natività. Essi portarono in dono oro, incenso e mirra, e una stella li precedeva. La stella che li guidava era il simbolo della conoscenza celeste direttrice; l’oro, del bene più puro relativo a Dio (…); l’incenso, profumato e gradevole, del bene secondario rivolto al nostro prossimo; la mirra, del bene inferiore rivolto a noi stessi, e ciò in quanto essa, ancorché preziosa (…), ha un’intrinseca amarezza.
Questi tre doni – a Dio, al prossimo e a noi stessi – costituiscono e tre elementi di ogni culto autentico e (…) di una vera umanità massonica”.
Ma secondo una interpretazione cristiana di Gesù – che da noachide non avrebbe fondato alcuna nuova religione né mai avrebbe considerato se stesso figlio di Dio, se non in senso elettivo, o “adozionistico” – Egli avrebbe manifestato la grazia e non la Legge, e la rivelazione più alta di ciò starebbe nelle Beatitudini. Ora, Gesù stesso si presenta come colui che porta a compimento la Legge e, partendo da quella ebraica, la spiritualizza (si potrebbe dire che la chiave del suo ministerio sta nel rendere Legge lo Spirito), dunque la estende fino alla universalità: ecco allora che il semplice precetto mosaico contro l’adulterio diventa nelle sue parole un monito a neppure atteggiarsi in modo da suscitare in sé o in altri la tentazione a commetterlo (Mt. 5:27-28). Certo, nelle Beatitudini vi sono i passi sul non opporsi al malvagio che sembrano lontani dallo spirito noachide, ma a proposito si possono fare le seguenti riflessioni: 1) in altri passi – un solo esempio: la cacciata dei mercanti dal Tempio – Gesù rivela una tempra militante; 2) nella tradizione profetica è previsto che il Messia porgesse “la guancia a coloro che mi strappavano la barba (Is. 50:6-7), ma con l’aiuto di Dio il suo volto sarebbe divenuto “duro come pietra” ; 3) in vari punti del Vangelo Gesù, e nelle stesse Beatitudini (Mt. 5:26) si riferisce alla legittimità delle pene secolari e alla necessità di risarcimento del danno, dunque è chiaro che il suo insgnamento estremo sul perdono ha carattere paradossale; in qualche misura etologico: come tra i lupi in lotto quello che sta per soccombere offre l’area giugulare e ottiene in tal modo di far facendo l’avversario dal conflitto, così l’uomo mostrandosi vulnerabile può ottenere benevolenza e, soprattutto, spezzare la catena della rappresaglia. A questo proposito scrive Ulfat Aziz us-Samad in Islam and Christianity (Sahaba Islamic Press, Kuwait City 1985):
“Questo [l’insegnamento sulla non-resistenza] costituì forse un necessario correttivoalla durezza di cuore e allo spirito vendicativo prodotti dall’osservanza letterale del- l’insegnamento”occhio per occhio, dente per dente”, ma può forse essere considerato universale? O essere praticato come come un sano precetto morale in tutti i casi e in tutte le occasioni? La non-resistenza al male quando il bersaglio del medesimo non siamo noi ma qualcun altro è un segno di codardia e apatia...”
A queste osservazioni potremmo aggiungere che – come si deduce dal Corano stesso, per restare in un quadro di riferimento islamico – le Scritture cristiane potrebbero aver subito, nel corso del tempo, elisioni e alterazioni decisive, volte magari a giustificare – aggiungiamo noi sulla scorta delle acquisizioni della storia della Chiesa – la piega che le vicende ecclesiali, turbolente fin dagli esordi, venivano prendendo, e a sostenere le opzioni dei partiti teologici vincenti. Non è un caso che nel canone non sia entrato a far parte l’antico – ma gnosticheggiante – Vangelo di Tommaso, o quel Vangelo di Barnaba al quale si richiama, per una cristologia alternativa a quella nicena, la tradizione islamica.
Vale la pena, allora, tornare alla dolce ierostoria della Stella, dei Magi e del Bambino e vedere in essa una epifania non solo del divino nell’umano (senza che ciò implichi l’idea di incarnazione esclusiva), ma anche della celeste serenità dell’Arcobaleno apparso a Noach dopo il mabbul, ossia del divino nel cosmico.
Michele Moramarco
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I TRE GRANDI ARTICOLI DI NOACH
Ora, è risaputo che le Leggi di Noach sono sette (ancorché il loro numero non sia unvocamente stabilito in tutte le fonti ebraiche: secondo la Genizah del Cairo sono trenta). A che si riferiscono, dunque, i “tre grandi Articoli”?
Una risposta ci viene dal valido libretto di Aaron Lichtenstein The Seven Laws of Noach (uscito in Italiano per i tipi delle edizioni Lamed, Milano s.d.). Interpretando un passo di Menachem Azariah da Fano in una sua opera uscita ad Amsterdam nel 1649, Lichtenstein dimostra che secondo una tradizione i sette precetti noachidi si compendiano in tre, fondanti: proibizione dell’idolatria, dell’assassinio e dell’adulterio. In termini massonici, si nota una corrispondenza tra i tre Articoli, come li chiama Anderson con linguaggio giuridico settecentesco, e le “sfere” di vita nelle quali si muove la coscienza del Libero Muratore: la divina, l’umana e la naturale. Idolatria è negazione del rapporto con Dio, assassinio è negazione del rapporto con l’uomo, adulterio (con gli altri rapporti sessuali illeciti: sodomia, incesto, ecc) è negazione della natura, prima ancora che dei patti sociali. Vale la pena di notare come anche nello Zoroastrismo l’adulterio sia considerato grave più del furto (che non è incluso nei tre grandi articoli di Noach), nell’ordine delle colpe.
Purtroppo le Costituzioni del 1738 – fors’anche per l’eccessiva tenedenza di Anderson a rivedere, interpolare, escrescere i documenti che gli venivano sottoposti per l’editing – rimasero, come scrive Coil nella sua Masonic Encyclopedia , “lettera morta”, e prevalse la più blanda versione del 1723. Ma resta significativo il fatto che la Gran Loggia d’Irlanda le pose a proprio fondamento nel suo Book of Constitutions del 1751; di lì a tre anni Laurence Dermott le avrebbe recuperate per l’Ahiman Rezon, testo-guida degli Antients, i Liberi Muratori che si richiamavano con più forza alla tradizione.
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UNA ILLUSTRAZIONE DELLE SETTE LEGGI DI NOACH
1. astenersi dall’idolatria, ovvero non adorare alcun oggetto o creatura al posto di Dio, perché ciò allontana l’uomo dal proprio centro, lo svia dalla meta cui è destinato e lo istupidisce. L’uso di immagini (dipinti, statue, ecc.) è legittimo solo se unito alla consapevolezza che esse fungono da supporti o veicoli soggettivi del Sacro che li trascende.
2. non profanare il nome di Dio, cioè non infamarlo, non deriderlo e non invocarlo a giustificazione o copertura dei torti. Sia la bestemmia – che peraltro, sul piano civile, costituisce un’offesa ai valori più alti cui altre persone si richiamano – sia una “pia” superficialità nel nominare Dio in modo narcisistico e strumentale, vanno esecrate.
3. non assassinare (precetto che include la condanna della guerra, dell’uso e della diffusione di sostanze letali, dei crimini stradali – oggi ignobilmente condonati – e dell’esaltazione mediatica di ogni violenza). La pace noachide è la restaurazione di quella edenica precedente la Caduta: perciò dobbiamo tenere in gran conto, come ispirate da Dio, le parole di George Fox agli emissari di Cromwell che intendevano arruolarlo come ufficiale dell’esercito nel 1651: “…Dissi loro che ero partecipe di quel trattato di pace che era stato stipulato prima che esistessero le guerre e le lotte”.
4. non rubare (anche “legalmente”, ad es. non ricompensando in modo equo il lavoro, o attraverso la speculazione e l’usura). Questo precetto implica il dovere, per chiunque sia in grado, di contribuire – sia pur con modalità diverse – al lavoro umano, rifuggendo dall’ozio sterile: “ora et labora”, la massima benedettina, è di stampo noachide
5. non compiere atti sessuali illeciti (incesto, adulterio, sodomia, ecc.), nè incentivarli in alcun modo (ad es. legittimando – sotto pretesti artistici o di libertà – l’oscenità e la trasgressione, o avvilendo il senso del pudore e la pubblica decenza con comportamenti e immagini che esibiscano i corpi, divenuti – con la Caduta – colonie di putredine, vanità e colpa). Occorre ricordare che, come scrive Louis-Claude de Saint-Martin, ciò che entra nell’uomo per la via della seduzione, dovrà uscirne per quelle della pena e dello schianto.
6. non commettere crudeltà sugli animali (anche con l’abbandono di quelli domestici, le modalità di trasporto e di stabulazione in cui lo spazio vitale sia negato, le sperimentazioni cliniche selvagge). E’ evidente che la modalità più completa di questo precetto sta nell’astensione dal consumo di carne e di pesce (vegetarismo), ma è altrettanto evidente che, da un punto di vista noachide, questa è la scelta ottimale, non un obbligo in qualsiasi circostanza.
7. stabilire “corti di giustizia”, ovvero garantire la certezza del diritto e porre le basi per la giustizia sociale, partendo da una retta ed equilibrata ripartizione dei beni. Gli abusi nell’esercizio dell’autorità, così come le forbici nelle condizioni economiche e la miseria in cui molte persone oneste sono ridotte – anche se i mezzi per sollevarle da tale condizione ci sono – costituiscono brutali offese a Dio. La forma organica della carità è la giustizia (non è un caso che nella lingua ebraica la parola tzedakah abbia ambedue i significati). La giustizia, affermava Proudhon, è la divinità della coscienza.
I Sette Precetti si diramano da un unico fondamento, che l’Avesta zoroastriano chiama “Asha”, un termine polisemico significante, a seconda dei contesti e degli usi: Verità, Virtù, Rettitudine, Ordine e Purezza, qualità a ben vedere concomitanti. Asha è dunque il cerchio intimo della Legge Sacra, il suo “ethos”. Come scrive Mazzini nei “Doveri dell’uomo”: “…. Non vi è vita senza legge. Una legge d’aggregazione governa i minerali; una legge di crescita governa le piante; una legge di moto governa gli astri. Svilupparvi, agire, vivere secondo la vostra legge è il primo, anzi unico vostro Dovere“. Questo rapporto tra vita e legge è ben presente nella tradizione noachide: analizzando i miti diluviani di numerosi popoli, si osserva come anche gli “altri Noè” (Ziusudra, Utnapishtim, Deucalion, Yima, Manu) siano stati, in vari modi, vivificatori e legislatori.
Con i “figlì di Noè”, che provenendo da tradizioni diverse sottoscrivono il Patto Noachide, ritengo che le Sette Leggi siano i pilastri di una sana civiltà, cui bisogna tendere. Nell’esistenza individuale la loro applicazione è affidata alla coscienza e alle scelte del soggetto, a cui spetta modularla nei singoli frangenti (la Legge Sacra è rigorosa, non rigida), rendendone poi conto a Dio; sul piano sociale essa comporta evidentemente drastiche rettifiche nell’economia, nella cultura e nei costumi. Più una società si allontana dalle direttrici noachidi, più sarà soggetta a disgregazione e putrescenza, come la storia e l’attualità mi pare dimostrino.
Michele Moramarco, MCA
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IL NOME DI VITA
Dei Nomi Divini presenti nella tradizione ebraica, i Maestri Noachidi utilizzano nelle loro tornate El Chai (Iddio Vivente), quello che meglio risponde alla pienezza spirituale e all’effusività del Padre Celeste.
Ma in questa lettura vitale e fausta di Dio, essi vanno oltre, interpretando ha-Shem, il nome più sacro agli Israeliti (il tetragramma JHVH, che viene pronunciato ‘Adonai, Signore, ogniqualvolta lo si incontra nel testo biblico) come arco vitale (analogo all’arco tra le nubi apparso dopo il Diluvio). Anche nel Rito Swedenborgiano, che incista un nucleo noachide, si trova questo insegnamento:
“Il Nome Ineffabile consiste di tre suoni, che non vengono mai perfettamente sussurrati se non quando si imita la prima inspirazione alla nascita, l’atto del respirare o di soffiare, l’ultima espirazione alla morte, a denotare Colui che era, che è e che sarà…”.
L’approccio noachide al Tetragramma integra l’intuizione qabbalistica secondo la quale Yod rappresenta il principio attivo, He quello ricettivo e Vav la loro congiunzione che genera la seconda He, matrice cosmica. Nella Qabbalah luriana tale assunto era il fondamento della sacralità del matrimonio e dell’obbligo di non profanare la congiunzione uomo-donna con la lussuria, la promiscuità e l’adulterio.
L’interpretazione “vitale” di ha-Shem lo connette al Nome zoroastriano del Signore, Ahura (che viene da ahu, il principio cosmico/vitale) e alla Prima Vita del Mandeismo.